Quando raggiungi una certa età, le occasioni per sentirti vecchio aumentano a dismisura, e diventa sempre più difficile individuare il primo momento in cui hai visto il tempo sfanalare nervosamente e sorpassarti a destra.
La mia prima volta è stata quando ho compiuto 21 anni e dovuto accettare definitivamente che non avrei fatto il calciatore professionista, poi via via un numero crescente di situazioni: il decimo anniversario di film/dischi con cui sei cresciuto, il decimo anniversario di film/dischi che ti pareva fossero usciti ieri l’altro, fino ad appena ieri pomeriggio quando un nostro commentatore ha citato il caso Rodney King e le rivolte di Los Angeles come se fosse un aneddoto scoperto per caso su Wikipedia, come se all’epoca non fosse costantemente su tutti i TG mentre io avevo già il motorino. Ricorderò sempre anche quel ragazzino che una volta, genuinamente emozionato, mi disse “Ma tu sai che Dave Grohl era il batterista dei Nirvana, sei un grande!”. L’ho abbracciato forte.
Nonostante ciò, oggi penso di aver individuato con certezza matematica il momento in cui, a chiare e inequivocabili lettere, si stabiliva che ero definitvamente, incontrovertibilmente parte di una generazione ormai scavalcata.
E no, non è stato quando mi sono reso conto che per l’anagrafe potrei tranquillamente essere padre di Chloe Moretz ma quando, lo scorso dicembre, ho visto questo poster:
Favorisco il dettaglio:
Per il pubblico del 2013, c’è bisogno di spiegare chi è Sylvester Stallone.
Per spiegare al pubblico del 2013 chi è Sylvester Stallone, non basta più citare Rocky e Rambo.
Al pubblico del 2013 che va a vedere un film che ha per protagonista il 46enne Jason Statham – mica Taylor Lautner, e anzi forse l’unico oggi che ancora si ostina in qualche modo a girare proprio action old school simili a quelli che faceva Sly ai suoi tempi – bisogna spiegare che Sylvester Stallone è il regista e sceneggiatore degli Expendables (2010).
Dopo aver visto quel poster, ho chiamato il mio notaio e iniziato a buttar giù testamento (la Cobretti Mansion andrà al mio amato cane Voltron).

Mio caro e fedele Voltron, un giorno tutto questo sarà tuo
Comunque: Homefront.
Sylvester Stallone (per chi non lo conoscesse: è il regista e sceneggiatore degli Expendables) per la prima volta dopo un fracasso di tempo scrive una sceneggiatura che, in un raro impeto di umiltà, decide di essere troppo vecchio per interpretare, e la trae dal primo di una serie di romanzi di Chuck Logan sul personaggio di Phil Broker.
Incontriamo Phil Broker, interpretato da Jason Statham (The Expendables), mentre si sta mirando e rimirando i suoi bellissimi capelli lunghi dovuti al fatto di essere infiltrato in una banda di motociclisti con cui sta andando a fare una rapina.
È una situazione alla Forza d’urto: ha passato parecchio tempo con loro, e si è guadagnato la loro fiducia al punto che durante la rapina, alle prime avvisaglie che qualcosa sta andando storto, nessuno sospetta di lui.
E invece è stato lui.
Eh! Oh, è stato lui.
Arrivano i rinforzi, ci sono sparaggi vari, la situazione precipita e ci scappa il cadavere. Muore il figlio del boss dei cattivi davanti agli occhi del boss dei cattivi, che va in galera giurandola grossa al Jason. Al Jason non rimane che prendersi una lunga pausa, rifugiarsi in un paesotto distante con la figlia pre-teen, e soprattutto rinunciare ahimé alla sua bellissima parrucca.

“La pagherete per avermi costretto a rinunciare ai miei lunghi boccoloni”
Homefront non è esattamente il film che mi aspettavo dalle premesse e dal trailer, e lo dico in modo assolutamente neutro.
Quello che succede dopo non è esattamente semplice e lineare. La figlia pre-teen (o cre-teen, hahaha… uhm *cough*) di Statham mena un bullo obeso a scuola, e la cosa innesca una reazione a catena che coinvolge pian pianino diversi personaggi e porta a un progressivo degenerare della situazione: il bullo obeso attira l’attenzione dei genitori redneck fattoni (Kate Bosworth e Marcus Hester), i quali mettono addosso a Statham prima gli occhi dello sceriffo (Clancy Brown), poi quelli di Gator (James Franco), l’ambizioso spacciatore di meth del paesello e la sua donna Sheryl (Winona Ryder) e, senza svelare troppo, poco alla volta il segreto sull’identità di Phil Broker inizia a traballare e ad attirare guai.
Il film inizia infilando molte delle scene classiche del genere, a base di minacce e controminacce e piacevoli pestaggi senza motivo, ma dopo un po’ inizia a prevalere la voglia di provare a mettere insieme qualcosa di un po’ più solido. Si iniziano a moltiplicare i personaggi, alcuni di essi sorprendentemente più sfaccettati del necessario (James Franco) e/o interpretati da attori in palla (Kate Bosworth), e la faccenda prende quasi i contorni di un film corale da cui traspare con una certa evidenza la matrice letteraria. E finché la parte action non ne risente si tratta effettivamente di una formula oggi rinfrescante, old school nell’accezione più classica e sostanziosa del termine, qualcosa che probabilmente avrebbe meritato una miniserie in cui limare anche quello che era rimasto malamente grezzo. Del resto alla regia c’è Gary Fleder, uno che prima di perdersi in tanta tv si era fatto notare con l’ottimo Cosa fare a Denver quando sei morto, e che probabilmente per questa occasione è andato a ripescare in soffitta qualche grammo di ambizione che gli era avanzato da allora.
Il problema sta nel fatto che dalla metà in poi il ritmo si impantana, i momenti d’azione calano e occasionali maccosa rovinano il gusto alle buone idee e alle scene girate come si deve, come il faccia a faccia al bar tra Statham e Franco o la serie di svolte che portano al loro confronto finale senza farlo sembrare necessariamente scontato. Non c’è niente per cui disperarsi, anzi, ma non c’è nemmeno niente che esalti o rimanga particolarmente impresso.
Alla fine è un film che, com’è successo fin troppe volte di recente, non sposta lo situazione di Statham di mezzo millimetro e non corre il minimo rischio di creare un franchise nonostante ci sia abbondanza di materiale a disposizione: è bello comunque vedere Franco servire con dedizione un ruolo che pensavo avrebbe affrontato con il suo occasionale spirito goliardico-situazionistico, e soprattutto come dopo tutto questo tempo Sly sappia ancora scrivere uno script capace di sorprendere chi di lui conosce soltanto gli Expendables o le mille gloriose tamarrate interpretate in carriera, dimenticando che la sua leggenda è iniziata mostrando talento da autore completo.

“Non ti muovere che ti devo spaccare la fazza”
DVD-quote suggerita:
“Quando esci da un action lodando sceneggiatura e recitazione, non è mai un segno incoraggiante”
Nanni Cobretti, i400Calci.com